Fuori Campo per CaroCoach Magazine…

Pubblico con piacere l’intervista che gli amici di CaroCoach hanno realizzato qualche giorno fa nella speranza che possa essere uno stimolo per tutti coloro che guardano allo sport come ad un modello da seguire… buona lettura!

  1. Vent’anni di carriera sportiva, tante vittorie, un cambio di ruolo in età matura, prima medaglia nella storia della Nazionale italiana di pallavolo, che cosa vuol dire crescere nello sport? Punti di forza e limiti dell’educazione sportiva.

Crescere nello sport, soprattutto negli sport di squadra, significa vivere a pieno i concetti di solidarietà, responsabilità e slancio verso l’alto. Significa capire che una nostra azione condiziona gli altri, significa capire che senza gli altri non c’è gara, non c’è punto. Questo è un messaggio da tenere ben presente quando si entra in palestra ad allenare i piccoli campioni di domani. È importante che un coach, soprattutto a livello giovanile, insegni questi fondamentali, che sono poi dei fondamentali utili anche nella vita. Saper fare un palleggio o una schiacciata, non basta per essere veri campioni. La palestra è a tutti gli effetti una palestra di vita, la metafora della nostra esistenza ma se, come spesso accade, l’esperienza dello sport si riduce solo ad una competizione sfrenata, un mero elenco di medaglie appese al collo, il significato profondo dell’esperienza, rischia di perdersi . Come direbbe Bergonzoni, servirebbero meno medaglie e più petti a cui appenderle

  1. Come evitare che chi si dedica allo sport  a livello agonistico viva una realtà parallela rispetto ad un adolescente medio? Ovvero come trovare un equilibrio tra impegno e leggerezza?

A livello giovanile questo rischio si limita portando i giocatori fuori dal campo da gioco per permettere loro di vivere esperienze di altro tipo. Lo sport è una fucina di spunti e di messaggi da cogliere e poiché stiamo ormai diventando una società dove i rapporti sono sempre più virtuali, allenare i ragazzi a considerare la disciplina sportiva un’esperienza utile nella vita, e non solo in campo, può aiutarli a ridurre il desiderio di abbandono molto frequente in età adolescenziale.

La partita sul campo ci ricorda che il corpo esiste e che non possiamo fare a meno di tenerne conto. La palla che arriva è una situazione da affrontare vera, non è virtuale, non si è dentro un video game, non c’è il genitore a risolverla per noi. Se poi il risultato a fine gara è una sconfitta, questa va letta come stimolo per un miglioramento, e non come sconfitta personale. Questo potrà permettere ai ragazzi di vivere l’impegno con serietà, ma anche con divertimento e leggerezza: i concetti non sono in antitesi.

  1. Cosa rappresenta l’allenatore per lo sportivo?

L’allenatore moderno deve rappresentare diverse figure: dev’essere un esperto di tecnica, di coaching ed in certi momenti anche un padre spirituale. Non basta più sapere a memoria un manuale di esercizi se poi, a livello relazionale, non si riesce a fare squadra. Marco Bonitta, attuale allenatore della Nazionale Italiana di Volley,  fu cacciato nel 2006 dalle sue ragazze, dopo aver vinto un Mondiale, per i metodi arroganti ed irrispettosi. Soprannominato Bonhitler , quell’esonero fu un evento straordinario, mai successo prima. Oggi Marco, a distanza di 9 anni, è ritornato sulla panchina della Nazionale femminile a fianco di alcune atlete che furono fautrici della suo esonero… che Marco si sia messo in discussione lo si vede dai risultati e dallo spirito di squadra che queste atlete hanno dimostrato in campo nei recenti campionati Mondiali disputati in Italia.

  1. Che ruolo deve avere la famiglia di uno sportivo?

Domanda difficile… mi verrebbe da rispondere: “Esserci senza esserci”. Il tema è molto caldo tra gli addetti ai lavori. C’è chi auspica una squadra di orfani, c’è chi invece (ed io sono tra questi) considera i genitori la propria squadra invisibile, e sicuramente una risorsa.  Se andiamo a leggere la storia dei campioni troviamo genitori assenti che si sono limitati a fare da taxisti e genitori ingombranti che sono diventati, addirittura, allenatori dei propri figli. Senza entrare nello specifico delle due casistiche, hanno vinto nel primo cosi come nel secondo caso, e questo ci dimostra che, forse, la ricetta del bravo genitore non esiste e che solo il buon senso, e un pizzico di fortuna, possono essere fondamentali.  Come si sta in campo si sta nella vita e, proprio per questo, lo sport è una grande opportunità di verifica che i genitori, allenatori ed insegnanti hanno per raccogliere informazioni utili sull’andamento del loro operato di educatori.

  1. La quotidianità è vista come un pericolo per chi pratica sport agonistico?

In questi ultimi anni per fortuna è cambiato molto l’approccio verso il quotidiano, ma credo ci sia ancora molta strada da fare in tal senso. Uno stile di vita sano è auspicabile, visto l’impegno fisico e mentale del mestiere dell’atleta, l’importante è che gli impegni al di fuori della palestra non siano visti con pregiudizio  come impedimenti al rendimento in campo. Negli anni ’80-’90 si guardava alla DDR e all’URSS come ad un modello ideale da seguire sia nei metodi di insegnamento delle discipline sportive che nella gestione del gruppo.  Questo ha creato danni irreparabili allo sport Nazionale, non tanto in termini di risultati, ma di stress ed abbandoni eccellenti da parte di atleti,in particolare donne che, come spesso accadeva, venivano gestite con maggiore rigidità rispetto agli uomini. Non è mai stato scientificamente provato che le punizioni e le privazioni, così come i premi,siamo elementi motivanti per l’atleta. A motivare un campione è la gioia con cui vive un’esperienza, è la soddisfazione quotidiana nel migliorare un gesto… tutto il resto è moda e marketing dello sport. 

  1. Nell’educazione sportiva si usano metodi rigidi? Qual è il rapporto con la gerarchia?

Si, per una questione culturale che appartiene al mondo dello sport. Inizialmentele esercitazioni sportive non mostrarono caratteristiche prevalentemente agonistiche, bensì di gioco e di intrattenimento.In tempi successivi al Medioevo, gli esercizi assunsero un duplice aspetto: quello medico-spirituale-ginnico, sviluppato maggiormente in Oriente, e quello atletico-rituale, prosperante nel bacino del Mediterraneo. In Occidente prevalsero l’aspetto atletico, la cura del vigore muscolare e la resistenza alle fatiche a fini militari. Quest’ultimo aspetto ha condizionato, ed in parte condiziona tutt’ora, la disciplina dello sport; con allenatori che, in ambiti giovanili cosi come ad alti livelli, scimmiottano il sergente Hartman nel capolavoro di Kubrick . La storia  dello sport al femminile è piena di storie di allenatori despoti che punivano le sconfitte in campo con metodi militari molti umilianti.Per fortuna oggi non è più cosi… è evidente però che giocare in uno sport di squadra preveda il rispetto di regole che orientino il team a capire, “chi – fa’- che cosa e come” e quindi fare ordine diventa una normale conseguenza. Ovviamente il filo tra la gerarchia, vista come necessità di fare ordine, e l’invasione nel campo della prevaricazione e della prepotenza è molto sottile…  sta all’intelligenza del coach capire i confini entro i quali muoversi per il bene della squadra. Io credo che la condivisione e la compartecipazione degli attori in gioco possa essere una giusta via…  alla fine sarà sempre l’allenatore a decidere, ma questo avverrà solo dopo aver coinvolto tutta la squadra.

  1. L’agonismo e la competizione possono condizionare la vita quotidiana di uno sportivo? C’è il rischio di diventare competitivi anche nei sentimenti?

Si è sportivi perché si è competitivi o si è competitivi perché si è sportivi?

Il termine competizione inteso come simbolo di gara, lotta o conquista di un primato ci appartiene da sempre e non è strettamente legato al mondo dello sport. Diciamo che il gesto atletico e la gara esaltano l’idea della competizione, ma l’essere umano, da solo o in gruppo, cerca continuamente l’affermazione di se stesso nei confronti con gli altri. La competizione, vista in chiave positiva e migliorativa tra specie diverse o all’interno della stessa specie, è un fattore fondamentale di regolazione ambientale, elemento di modificazione delle condizioni di sopravvivenza e di accrescimento tra specie diverse o della stessa specie. Quindi la competizione, concepita come crescita personale e non come prevaricazione dell’altro, dovrebbe essere auspicata nonché promossa. La cosa drammatica  è che nel xx secolo le regole economiche hanno iniziato a governare il mondo, le risorse della terra sprecate in nome del profitto e del libero mercato, i valori della gente trasformati in un materialismo artificioso e uno sconsiderato consumismo. Il lavoro è passato dal concetto familiare della condivisione di un progetto ad un esasperato elenco di provvigioni e budget da raggiungere e così il termine competizione ha assunto significati sempre più marziali ed aggressivi .  È saltato il senso del sociale ed è  esattamente in questa trasformazione che il concetto del competere, del giocare con l’altro ha cambiato di significato diventando l’emblema dell’eliminazione dell’avversario. Purtroppo la competizione, cosi com’è vista oggi, condiziona non solo la vita di uno sportivo ma la vita sociale e privata di tutti noi. Non a caso l’ansia da prestazione, fino a qualche anno fa associata allo sport, oggi riguarda tanti ambiti della nostra vita.

  1. La carriera di uno sportivo spesso si conclude in un’ età in cui si è considerati “vecchi” per lo sport e ancora “giovani” nella società civile e nel lavoro. Come equilibrare il divario tra professionalità e maturità?

Mantenendosi ben saldi e coi piedi per terra, continuando a studiare e ad investire durante l’ attività in quello che sarà il proprio futuro extra sportivo. Il mestiere dell’atleta è un lavoro che porta i protagonisti ad un usura fisica e mentale precoce e, considerato che non tutti hanno redditi alla Totti, ecco che il problema si pone già nel momento in cui in tenera età si passa dal dilettantismo al professionismo. Se già durante la carriera non si affronta il rientro in campo nella quotidianità, il rischio sociale che il campione si trova ad affrontare può determinare gravi disagi per sé e per le persone che lo circondano. In particolare le incognite che l’atleta dovrà gestire oltre lo sport sono principalmente tre: la probabile perdita di status che si verifica quando, al termine della propria carriera, non riesce a mantenere per sé e per la propria famiglia il tenore di vita fino a quel momento mantenuto; la probabile difficoltà a mantenere il proprio d-base di conoscenze acquisite e mantenute durante l’attività, ma non cosi scontate al termine della propria carriera; il probabile ridimensionamento della propria immagine proiettata sul futuro con incertezze che vanno a condizionare il proprio stato d’animo. Pertanto, essere consapevoli di questi rischi può essere già un buon punto di partenza per non trovarsi spiazzati al termine della propria carriera sportiva.

  1. Quali sono le carriere possibili di una pallavolista a fine carriera agonistica? E come inventarsi un futuro?

Oggi più che mai il futuro va inventato e per fortuna lo sport in questo aiuta. Per quanto un atleta si possa allenare o possa studiare una strategia vincente, la palla che si trova ad affrontare durante la gara è sempre diversa. Questa apertura mentale, necessaria per diventare un campione, può essere un valore aggiunto nel mondo del lavoro cosi precario come quello attuale. Premesso che ognuno di noi ha le proprie passioni che vivono a prescindere dallo sport che pratica, la pallavolo, cosi come altri sport di squadra, plasma principalmente due tipologie di figure professionali: gli artisti e gli esecutori. I primi devono essere lasciati liberi di esprimersi perché trovano nella libertà la loro opera da realizzare; possono lavorare nel campo dell’arte, musica o rimanere nello sport. I secondi sono dei validi partner, perché abituati ad eseguire ordini, a giocare di squadra e quindi a condividere ogni momento della vita lavorativa con gli altri.  Da imprenditrice io vorrei almeno un atleta nel mio staff aziendale… magari non sarà un commerciale nato, ma in termini di fidelizzazione, gioco di squadra ed altro, avrebbe molto da insegnare a me e ai miei collaboratori.

10. Che cosa dovrebbe cambiare nella visione d’insieme? Come rendere forte chi a fine carriera si sente altro? 

Per rispondere a questa domanda mi affido al grande Dario Fo che in poche righe, esprime tutto il mio pensiero…

“Bisogna cambiare completamente rotta, occorre ritornare primitivi.

Bisogna cercare un altro modo di stare al mondo, non per proprio conto ma insieme.

Cambiare il nostro modo di essere ma, soprattutto,il nostro modo di affrontare i problemi di tutti, cioè ritrovare un altro senso della vita, un’altra cultura.

Passare del tempo, degli arraffi al tempo della condivisione.” Dario Fo

 

Intervista di Cristiana Rumori